IL PRETORE
    Visti  gli  atti  del  procedimento penale a carico di Urli Ivano,
 nato a Lestizza il 4 gennaio 1946, assistito dal difensore di fiducia
 avv. Marino Ferro del foro di Udine;
   Premesso che l'imputato e' stato tratto a giudizio davanti a questo
 pretore - insieme con altre cinque persone, la cui posizione e' stata
 tuttavia  separata  in  via  preliminare  -  per   rispondere   della
 contravvenzione  di  cui  all'art.  21,  terzo  comma, della legge 10
 maggio 1976, n. 319, "per avere provocato o comunque non impedito  lo
 scarico delle acque reflue della pubblica fognatura della frazione di
 Galleriano   di   Lestizza,  eccedente  i  limiti  di  accettabilita'
 prescritti dalla tabella A1 allegata al d.P.G.R. n. 384 del 23 agosto
 1982 di approvazione del piano generale di risanamento delle acque, e
 comunque  della  tabella  A  allegata  alla  legge n. 319/1976, quale
 sindaco pro-tempore del comune di Lestizza";
    In atti preliminari il difensore dell'imputato chiedeva  a  questo
 pretore  di  valutare la sussistenza delle condizioni per pronunciare
 sentenza  di  proscioglimento  a  norma  dell'art.  129  c.p.p.,   in
 considerazione  del  fatto  che,  in base alle disposizioni contenute
 nell'art. 3, del d.-l. 17 marzo 1995,  n.  79,  il  fatto  contestato
 all'Urli  non  sarebbe  piu' previsto dalla legge come reato, essendo
 per lo stesso prevista  la  sola  sanzione  amministrativa;  chiedeva
 quindi,   in   via  subordinata,  a  questa  giudicante  di  valutare
 l'opportunita' di sollevare questione di legittimita'  costituzionale
 della  norma  richiamata  per  violazione  degli  artt. 3, 9, secondo
 comma, e 32, 10, 25, secondo comma, e 77 della Costituzione.
    Ritenendo la questione rilevante e non  manifestamente  infondata,
 il  pretore  decideva quindi di sottoporre all'attenzione della Corte
 costituzionale la valutazione di legittimita' costituzionale di  tale
 norma del citato d.-l. n. 79/1995.
                                OSSERVA
    Infatti questa giudicante come sussista innanzi tutto il requisito
 della rilevanza della questione.
    L'art.  3  del  decreto-legge in esame, sostituendo in toto l'art.
 21,  terzo  comma,  della  legge  n.   319/1976,   ha   depenalizzato
 l'inosservanza  dei  limiti di accettabilita' stabiliti dalle regioni
 ai sensi del (nuovo)  art.  14,  secondo  comma,  per  tale  condotta
 introducendo  una  sanzione  amministrativa  pecuniaria  da  lire tre
 milioni a lire trenta milioni.
    Dai verbali di prelevamento dd. 13 giugno 1991, e 2 luglio 1991  e
 dalle  relative  relazioni  di analisi dd. 24 giugno 1991 e 11 luglio
 1991, presenti nel fascicolo per  il  dibattimento,  risulta  d'altro
 canto  che  effettivamente venne accertato dal personale del Servizio
 chimico  ambientale  del  p.m.p.  dell'U.S.L.  n.  7   "Udinese"   il
 superamento    dei    limiti   tabellari,   cosi'   come   contestato
 nell'imputazione.
    In considerazione di cio',  viste  le  istanze  della  difesa,  il
 presente giudizio non puo' essere definito in modo indipendente dalla
 risoluzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale della
 norma di cui all'art. 3 del decreto-legge citato: solo  dopo  che  ne
 sia  stata  accertata  la  conformita'  o  meno alla Costituzione, il
 pretore sara' infatti in grado  di  decidere  per  l'assoluzione  del
 prevenuto,  a  mente  dell'art. 129 c.p.p., o per la prosecuzione del
 dibattimento.
    Ed invero, in relazione alla disposizione di cui  all'art.  3  del
 d.-l.  17  marzo  1995,  n.  79,  sussiste l'ipotesi di non manifesta
 infondatezza della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  per
 contrasto con numerose disposizioni della Carta costituzionale.
    Venendo  a considerare in maniera dettagliata la valutazione della
 non manifesta infondatezza della questione, si dovra' osservare  come
 la  norma  citata  si  ponga  innanzi tutto in contrasto con l'art. 3
 della Costituzione, e precisamente con il  principio  di  uguaglianza
 che detta norma pone come fondamentale parametro costituzionale.
    Da   un   lato,   infatti,   si   e'  discriminata  la  disciplina
 sanzionatoria per i titolari di scarichi da  insediamenti  produttivi
 che  superino  i  limiti  di  accettabilita'  delle tabelle "A" e "C"
 allegate alla  legge  (puniti  con  la  sanzione  penale  alternativa
 dell'ammenda   o   dell'arresto   raddoppiata   ove  sia  provato  il
 superamento dei  parametri  inderogabili)  rispetto  ai  titolari  di
 scarichi  di  pubbliche  fognature  quali,  nella  medesima evenienza
 (violazione dell'art. 14, secondo comma, della legge n.  319/1976)  e
 nell'ipotesi  reputata in assoluto piu' pericolosa per l'ambiente tra
 le varie  contemplate,  subiscono  la  sola  sanzione  amministrativa
 pecuniaria  sopra indicata: cio' che risulta del tutto irragionevole,
 ove si consideri che tale impianto solitamente altro non  e'  che  la
 somma di molteplici scarichi misti, cioe' civili e produttivi, che in
 esso  confluiscono,  per  cui, se comprensibile risulta l'irrogazione
 della  sanzione  amministrativa  per  gli  scarichi  da  insediamenti
 civili,   atteso   il   verosimile,  minor  loro  carico  inquinante,
 altrettanto non puo' dirsi per gli scarichi delle pubbliche fognature
 ad essi parificati  e  favorevolmente  discriminati  rispetto  ad  un
 superamento  -  anche minimo - dei parametri tabellari di un impianto
 produttivo, di certo meno pericoloso per l'ambiente  rispetto  ad  un
 sostanzioso superamento dei limiti da parte dei primi.
    La    differenziazione    non    trova,    pertanto,   ragionevole
 giustificazione, ma pare correlata in definitiva alla sola  qualifica
 soggettiva  dell'agente  tenuto  al  rispetto  della  norma (pubblico
 amministratore nel primo caso, imprenditore nel  secondo):  cio'  che
 pare  peraltro trovare conferma nell'art. 6, secondo comma, del d.-l.
 n. 79/1995, il quale ha depenalizzato pure la condotta di apertura di
 uno scarico da  pubbliche  fognature  "servite  o  meno  da  impianti
 pubblici  di  depurazione" in assenza della domanda di autorizzazione
 (attualmente soggetta alla sola sanzione amministrativa da lire dieci
 milioni a lire cento milioni) permanendo  al  contrario  la  sanzione
 penale  per  il  titolare  di  insediamento  produttivo che ometta di
 richiedere la debita autorizzazione  (art.  21,  primo  comma,  della
 legge n. 319/1976, rimasto immutato).
    Pure  l'ammontare  della sanzione introdotta dall'art. 6 del d.-l.
 n. 79/1995 testimonia  l'assoluta  incongruita'  della  normativa  in
 esame,  essendosi preveduta una sanzione piu' elevata per un fatto di
 inquinamento formale, quale ritenuto quello previsto dall'art. 6 (ben
 potendo lo scarico non autorizzato essere  contenuto  nei  limiti  di
 legge),  rispetto  alla  sanzione  pecuniaria  prescelta  in  caso di
 effettuazione di scarico da una pubblica fognatura che, autorizzato o
 meno, abbia provatamente recato un pregiudizio all'ambiente,  con  lo
 sversamento   di   reflui   eccedenti   i  limiti  tabellari  fissati
 all'inquinamento c.d. "legittimo".
    La distonia della norma in esame risulta  evidenziata  ancor  piu'
 dal  mantenimento  nel  sistema dell'art. 23 della legge n. 319/1976,
 sanzionante penalmente l'effettuazione di nuovi scarichi (da chiunque
 effettuati, e, pertanto, pure dal titolare della pubblica  fognatura)
 prima che l'autorizzazione, gia' richiesta, sia stata concessa: anche
 in   tal  caso  in  via  assoluta  un'irregolarita'  formale  -  come
 l'effettuazione  di  scarichi   in   ipotesi   consentiti   dopo   la
 presentazione   della  domanda  di  autorizzazione  (ad  es.,  da  un
 insediamento civile) - e' valutata e punita assai piu' gravemente  di
 una   condotta  sostanziale  e  atta  ad  incidere  su  beni  primari
 collettivi - come lo scarico illecito di sostanze da un  insediamento
 produttivo  pubblico qual e' la fognatura comunale -; inoltre, in via
 relativa,  per  quest'ultima  e  piu'  grave  condotta,  il  pubblico
 amministratore  sarebbe  sanzionato  assai  meno  pesantemente che in
 ipotesi di attivazione dello scarico della pubblica  fognatura  nelle
 more del rilascio dell'autorizzazione, pur quando il tenore di quello
 scarico fosse conforme agli standards di legge.
    Ma  vi  e'  di  piu':  ove  l'autorizzazione richiesta non venisse
 rilasciata, riprendendo vigore le norme dell'art. 21 della  legge  n.
 319/1976   (vd.   art.   23,   secondo  comma),  lo  stesso  pubblico
 amministratore  sarebbe  soggetto   ad   una   blandissima   sanzione
 amministrativa  pecuniaria  ove  lo  scarico  della  fognatura  fosse
 proseguito in spregio alle tabelle o alle disposizioni  del  P.G.R.A.
 (art.  3  del  d.-l.  n.  79/1995),  o  addirittura,  ad una sanzione
 amministrativa piu' pesante per il fatto di aver mantenuto lo scarico
 dopo il diniego del provvedimento (art. 6 del d.-l. n. 17/1995).
    Come dunque emerge con evidenza, tra  le  tre,  la  condotta  meno
 grave  ed  idonea  a recare minor danno o, addirittura, a non arrecar
 danno alcuno agli interessi  oggetto  di  tutela  e'  l'unica  punita
 penalmente ( ex art. 23 della c.d. "legge Merli"), mentre nelle altre
 due  ipotesi  l'entita'  della  sanzione pecuniaria amministrativa e'
 inversamente proporzionale al grado di lesione, di pericolosita' e di
 offensivita' della condotta concretamente mantenuta.
    Trattasi  di  opzioni  legislative  che,  pur  giustificate  dalla
 discrezionalita'  tipica di quella funzione, nel caso creano profonde
 disparita'  di  trattamento,  apparentemente  non  fondate   ne'   su
 presupposti logici obiettivi, ne' su specifiche concrete esigenze, in
 violazione  dei  canoni  di ragionevolezza - cui devono rispondere le
 scelte punitive - e del principio di uguaglianza  -  che  impone  una
 proporzione  tra  la pena e il disvalore del fatto illecito commesso,
 inosservata  quando  il   complesso   normativo   sanzioni   in   via
 amministrativa    condotte   connotate   di   maggior   gravita'   ed
 identicamente (se non piu') lesive del medesimo  bene  giuridico,  ma
 sanzionate penalmente quando commesse da soggetti diversi (cfr. Corte
 costituzionale 19 maggio 1993, n. 249; Corte costituzionale 23 giugno
 1994, n. 254; Corte costituzionale 25 luglio 1994, n. 341).
    La  disciplina  sin  qui  riassunta,  ed  introdotta  dal d.-l. n.
 79/1995,  gia'  piu'  volte  citato,  pare  poi   porsi   in   aperta
 contrapposizione   logica   con   l'art.   9,  secondo  comma,  della
 Costituzione; secondo la piu' recente ed  autorevole  giurisprudenza,
 sia  della  Corte  di  cassazione  che  di  quella costituzionale, il
 concetto  di  "paesaggio",  al  quale  la  norma  costituzionale   si
 richiama,  deve  infatti  intendersi  non  solo  nella sua dimensione
 estetica e culturale,  ma  come  ambiente  naturale  in  senso  lato,
 tutelato  anche (e soprattutto) in vista della conservazione di tutte
 le sue componenti bionaturalistiche.
    In considerazione di cio', e' evidente che  la  modificazione  del
 regime  di  tutela  dell'ambiente rispetto a fenomeni di inquinamento
 idrico causati da fatti gravi e in concreto  assai  pericolosi  quali
 gli  scarichi  di pubbliche fognature, (incontrollati ed) eccedenti i
 limiti  di  accettabilita',  connessa  alla  depenalizzazione   della
 condotta  e alla scomparsa dei poteri d'intervento - anche coercitivi
 - riconosciuti al giudice penale, riduce sensibilmente  la  capacita'
 preventiva e dissuasiva in materia, con una pericolosa regressione di
 efficacia della normativa e una conseguente, verosimile esposizione a
 maggior rischio e, comunque, una diminuzione netta di tutela del bene
 "paesaggio" nell'accezione sopra indicata.
    Sotto  questo  stesso  profilo, la disciplina in questione si pone
 pure in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, se  e'  vero  che
 nel  concetto  di  tutela  del  diritto  alla  salute  non  puo'  non
 ricomprendersi  anche  il  diritto  alla   salubrita'   dell'ambiente
 naturale   ed   urbano   in   cui   il  cittadino  vive  (cosi'  come
 autorevolmente riaffermato dalla Cassazione, a sezioni  unite,  nella
 ben  nota  decisione n. 517/1979, e dalla stessa Corte costituzionale
 nelle pronunce n. 641/1987 e n. 127/1990).
    Il principio  posto  dall'art.  32  della  Costituzione,  infatti,
 impone  in  via  incondizionata  rispetto  ad ogni altro interesse la
 ricerca delle scelte piu' adeguate onde preservare la pienezza  delle
 condizioni  oggettive di godimento dell'ambiente, nei suoi molteplici
 componenti (suolo, aria e acqua) rispetto alle  varie  manifestazioni
 di inquinamento.
    Quanto   poi  all'art.  10  della  Costituzione,  la  disposizione
 prevista  dall'art.  14,  secondo  comma,  della  legge  n.  319/1976
 (novellato   dall'art.   1,  primo  comma,  del  d.-l.  n.  79/1995),
 costituente il precetto rispetto al  quale  si  applica  la  sanzione
 amministrativa   di   cui  all'art.  3,  primo  comma,  del  medesimo
 decreto-legge,  pare  altresi'  porsi  in  contrasto  con  la   norma
 costituzionale   suddetta,   norma   che   impone   la  conformazione
 dell'ordinamento italiano agli obblighi  derivanti  dall'appartenenza
 del nostro Paese alle Comunita' economiche europee.
    In  particolare,  risultano  gia'  scaduti  al  30  giugno 1993, i
 termini per l'adeguamento alla direttiva del Consiglio 91/271/CEE, la
 cui adozione non solo viene ulteriormente procrastinata (dall'art. 1,
 quarto comma, del decreto-legge di cui ci si occupa, ma rispetto alla
 quale addirittura le norme in esame rappresentano l'antitesi,  attesa
 la  necessita' imposta dalle disposizioni comunitarie di classificare
 le "acque reflue urbane", le "acque  reflue  domestiche",  le  "acque
 reflue  industriali"  (art.  2)  e,  in  particolare,  di distinguere
 nettamente nella regolamentazione degli accessi  alle  reti  fognarie
 pubbliche   tra   i   vari  tipi  di  scarico,  assoggettando  quelli
 industriali  a  specifiche  autorizzazioni,  ad  accurati   controlli
 nonche'  a  requisiti  assai  restrittivi (cfr. artt. 11, 13 e all. I
 dir. 91/271/CEE).
    Lo Stato italiano, nonostante l'ampia scadenza  del  termine,  non
 solo  non  ha  ancora  provveduto  in  alcun  modo  ad  operare  tale
 distinzione basata sulla natura delle acque  confluenti  in  pubblica
 fognatura,  ma  con  la normazione d'urgenza oggetto di analisi si e'
 mosso  addirittura  in  direzione  antitetica,  cioe'  nel  senso  di
 depenalizzare  sic et simpliciter tutta la condotta di gestione della
 pubblica fognatura (dalla  mancata  richiesta  di  autorizzazione  al
 superamento  dei  limiti  tabellari),  a  prescindere  dalla qualita'
 oggettiva degli scarichi in essa terminanti, costituente  presupposto
 necessario  per le successive opzioni, e questo nonostante le plurime
 condanne gia' in passato subite ad opera  della  Corte  di  giustizia
 europea  per  l'eccessiva permissivita' del sistema sanzionatorio nel
 settore dell'inquinamento idrico e per l'insufficienza di alcuni tipi
 di sanzioni penali.
    Infine,  un  ulteriore  profilo di illegittimita' della disciplina
 esaminata si pone in rapporto agli artt.  25,  secondo  comma,  e  77
 della Costituzione.
    Il  fondamentale  principio di riserva di legge in materia penale,
 posto  dalla  prima  delle  norme  costituzionali  indicate,  implica
 infatti, a parere di chi scrive, una riserva delle scelte di politica
 criminale  (sia  relative  alla introduzione di nuove incriminazioni,
 sia,  come  nel  caso  di  specie,  relative  alla  esclusione  della
 rilevanza   penale   di   determinate  condotte)  alla  volonta'  del
 Parlamento, unico organo che sia diretta espressione della sovranita'
 popolare e che garantisca nel contempo il controllo  da  parte  delle
 minoranze.
    Pur   se   discutibile,   l'introduzione  di  nuove  norme  penali
 attraverso  la  decretazione  d'urgenza  deve   dunque   considerarsi
 ammissibile  solo  quando  sia  comunque  assicurato l'intervento del
 Parlamento in posizione sovraordinata, quanto questo abbia  cioe'  la
 effettiva   possibilita'   di   conferire  stabilita'  e  durevolezza
 (oltreche' -  e  fondamentalmente  -  la  necessaria  certezza)  alle
 disposizioni   normative   introdotte  in  via  precaria,  attraverso
 l'esercizio dei propri poteri di conversione.
    Nella materia che ci occupa, al contrario, essendosi verificato un
 inquietante fenomeno di reiterazione  dei  decreti-legge,  si  e'  di
 fatto  spodestato l'organo parlamentare del monopolio a legiferare in
 maniera esclusiva nell'ambito penale, con assunzione,  da  parte  del
 Governo,  di  esorbitanti  poteri  di  bilanciamento e di valutazione
 degli interessi in gioco.
    Non pare poi si possa trascurare un ulteriore elemento, e cioe' la
 insussistenza  di  una  delle  condizioni   fondamentali   -   quella
 dell'urgenza  -  che  legittimano  il  Governo ad emanare decreti con
 valore di legge ordinaria, a mente dell'art. 77  della  Costituzione:
 infatti,  quale  urgenza puo' mai ravvisarsi nell'adozione di decreti
 legge che vengono ripresentati, perche' non convertiti in  legge  nei
 termini, per quasi un anno e mezzo, a partire dal novembre 1993?